Elogio della sardina: è saporita, costa poco, fa bene alla salute e anche all’ambiente

La  Organización de Consumidores y Usuarios (Ocu) ha cercato gli acidi grassi Omega-3 in 27 diversi alimenti. La regolare assunzione di questi acidi grassi nella dieta è consigliata dai nutrizionisti perché fanno bene al sistema cardiovascolare e a quello cerebrale. Il migliore? La sardina in scatola: è assai ricca di acidi grassi benefici, costa poco e non pregiudica gli equilibri dell’ecosistema.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di assumere ogni giorno almeno 200 mg di Omega-3. «Sono acidi grassi polinsaturi essenziali, che l’organismo non è in grado di sintetizzare e deve quindi introdurre attraverso gli alimenti, spiega Ángel Gil, docente di Biochimica e biologia molecolare all’Università di Granada. Gli Omega-3 si distinguono in DHA ed EPA. I primi sono una parte importante del sistema nervoso e di alcune cellule, come quelle della retina. Sono indispensabili fin dalla vita embrionale e le donne devono assumerne in abbondanza durante la gravidanza».

Ma gli Omega-3 sono anche fattori di salute per il cervello e per il cuore. «Sempre più dati mostrano che un adeguato apporto aiuta la prevenzione di malattie degenerative, incluso il morbo di Alzheimer, e dunque aiutano a evitare la morte neuronale», prosegue il professor Gil, che presedierà il Congresso mondiale della Nutrizione a Granada nel 2013. «Venti grammi di pesce in più ogni settimana possono ridurre del 7% il rischio di mortalità per patologie cardiovascolari».

La dieta mediterranea – ricca di pesce, frutta e verdura, cereali e legumi, olio d’oliva, con minori apporti di carni, latte e loro derivati – può fornire in media 800-1000 mg di Omega-3 al giorno. Ma oggi, con il progressivo abbandono delle tradizioni alimentari, ne stiamo assumento sempre di meno.

«I giovani hanno ridotto i consumi di verdure e legumi, e anche di pesce, riprende il Professor Gil. Mentre la nostra raccomandazione è di mangiare pesce almeno due volte, meglio ancora quattro volte la settimana, specialmente il pesce azzurro. Poiché, oltre a  questi acidi grassi, contiene proteine di alto valore biologico e importanti minerali come fosforo, iodio e zinco».

Il pesce è la miglior fonte di Omega-3. L’associazione madrilegna dei consumatori Ocu ha comunque voluto verificare i livelli di questo acido grasso in quattro categorie di cibi: latte e derivati, carni, fette biscottate, alimenti vari. In alcuni dei prodotti esaminati gli Omega-3 sono naturalmente presenti (es. conserve ittiche), in altri sono stati aggiunti, in altri ancora derivano da interventi ad hoc nella filiera (es. alimentazione innovativa delle galline ovaiole).

Le analisi hanno rilevato addirittura alcuni scostamenti in difetto rispetto ai valori dichiarati dai produttori. Ma nessuno dei cibi considerati è stato in grado di competere con la sardina: basta la metà di uno di questi pesciolini ad apportare la quantità giornaliera raccomandata di Omega-3. Al pari di un filetto di salmone, il cui costo è tuttavia assai superiore.

«Oggi la gente sa che il pesce fa bene alla salute, ma non lo consuma abbastanza: per la difficoltà di preparazione, la paura delle lische e il prezzo», spiega Carmen Gómez Candela, responsabile dell’unità di nutrizione clinica e dietetica all’ospedale La Paz di Madrid. E allora, quando non si ha occasione o possibilità di acquistare pesce fresco, si ha poca voglia o poca dimestichezza nel prepararlo, si apra una conserva di sardine.

Un’ultima nota positiva: le sardine, come le acciughe e le aringhe, non sono a rischio di estinzione. Sono piccoli pelagici che si nutrono di plancton e viaggiano in folti branchi (fino a 10 milioni), la pesca è facile (senza eccessivi consumi di carburante da parte dei pescherecci) e raggiunge i 30 milioni di tonnellate l’anno, un terzo della cattura complessiva a livello globale. Tuttavia solo una minima parte, circa l’uno per cento, finisce sulle nostre tavole. Oltre il 50% delle sardine viene infatti impiegato per alimentare i pesci di allevamento, come il salmone e l’aragosta in Canada. E un altro 40% è utilizzato per integrare i mangimi di avicoli e suini con proteine nobili.

Secondo Jackie Alder, uno degli autori di un recente studio dell’Università canadese del British Columbia, l’aumento del consumo umano diretto delle sardine sarebbe una soluzione “environmentally friendly” (rispetto al loro impiego nella catena alimentare dei pesci d’acquacoltura) e potrebbe ridurre la pressione sulle specie ittiche a rischio di estinzione.

I piccoli pelagici sono una valida alternativa rispetto al consumo di altre specie ittiche. A ben vedere, le aringhe sono un ingrediente chiave di molti piatti scandinavi, così come le acciughe – e in minor misura, anche le sardine – lo sono nei paesi del Mediterraneo. Queste buone abitudini vanno però lentamente a perdersi: è difficile preservarle ed è ancor più difficile esportarle nel resto del mondo. Poiché si tratta  di pesci piccoli, spinosi e molto saporiti.

Si potrebbe iniziare a promuovere le sardine con un video sulla loro vita, come quello realizzato dalla BBC. Ma servirebbe l’aiuto di rinomati “chef” – magari col contributo dei produttori spagnoli, portoghesi e italiani – per sostenere il rilancio dei consumi, promuovendo ricette facili e gustose.

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Granada Económica

Portada: La UGR, líder en creación de empresas por ‘spin-off’

Pág. 4 y 5: «Este proyecto puede ser el pilar donde apoyar el turismo de la Costa Tropical»

Pág. 8: La UGR, líder nacional en la creación de empresas basadas en el conocimiento

Pág. 10: Este año no será mejor que el 2010 según un estudio editado por Caja Rural

Pág. 55: Un estudio confirma que la melatonina previene la aparición del Parkinson

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20 Minutos

Pág. 10 – Publicidad: Premios a la excelencia en la movilidad internacional de estudiantes

Pág. 12 – Publicidad: XI Feria Internacional de Empleo Universitario 6 y 7 de Abril de 2011

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Ideal

Pág. 12: Una investigadora se quema en un laboratorio de la Facultad de Ciencias

Pág. 27 – Opinión: Elecciones sindicales en la Universidad

Extra Economía – Pág. 16: Granada necesita un esfuerzo extra

Pág. 54: Exposición en la Casa de Porras

Este viernes, fase provincial de Coca-Cola

Pág. 65: Charla de Antonio Santamaría / ‘Revueltas árabes…’

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Granada Hoy

Pág. 14: La Facultad de Económicas celebra su patrón

Pág. 19: Feria del empleo universitario

Deportes – Pág. 10: Fútbol. La selección granadina se mete en semifinales

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III Foro Internacional sobre Innovación Universitaria

  • Más de 30 universidades conforman este foro en el que se tratará de los “Avances en la Innovación Universitaria: Tejiendo el compromiso de las Universidades”, y se celebrará del 6 al 8 de julio en Bilbao

Ofrecer un espacio que favorezca la reflexión y el intercambio de experiencias en innovación entre los participantes; sensibilizar en la importancia de la innovación en el mundo actual y en el liderazgo universitario en la innovación y compromiso social; presentar, analizar y debatir los enfoques y experiencias innovadoras de las universidades en los ámbitos pedagógicos y de investigación científica y tecnológica, son algunos de los objetivos del “III Foro Internacional sobre Innovación Universitaria. Avances en la Innovación Universitaria: Tejiendo el compromiso de las Universidades”, que se celebrará del 6 al 8 de julio en Bilbao.

El Foro Internacional sobre Innovación Universitaria, conformado por más de 30 universidades de todo el mundo, es una Asociación de Universidades sin ánimo de lucro, al que la Universidad de Granada se ha incorporado recientemente, a propuesta del Vicerrectorado para la Garantía de la Calidad.

Para más información, pueden descargarse el programa en: http://calidad.ugr.es/pages/eventosdeinteres/programa_iii_foro_2011

Contacto: Profesora María José León Guerrero, vicerrectora para la Garantía de la Calidad. Universidad de Granada. Tn: 958 248491. Correo electrónico: vicalidaddir@ugr.es; web: http://calidad.ugr.es


Recomiendan mejorar la formación e información en materia de prevención en las empresas constructoras de invernaderos

«Hacen falta más formación e información tanto para los empresarios como para los empleados de las empresas que construyen invernaderos en materia de prevención de riesgos laborales. Hay un desconocimiento general de la legislación en materia de prevención de riesgos». Esta es una de las recomendaciones que se desprenden del estudio coordinado elaborado por José Pérez Alonso, profesor de construcciones agrarias del Departamento de Ingenierí­a Rural de la Universidad de Almerí­a, y cuyos resultados han publicado recientemente en la revista Safety Science.

Para llevar a cabo este trabajo, financiado por la Consejerí­a de Empleo de la Junta de Andalucí­a y por el Ministerio de Ciencia, el profesor Pérez Alonso, junto con otros expertos, ha visitado y analizado el 20% del total de las empresas constructoras de invernaderos que hay en Almerí­a, «una muestra muy amplia». A partir de un trabajo general sobre riesgos laborales hecho en la Universidad de Granada, el grupo almeriense ha adaptado y ampliado el cuestionario granadino al sector concreto que ellos trabajan. Primero han descrito las caracterí­sticas de cada empresa (facturación, número de empleados, tipo de invernaderos que construyen…); después han realizado una segunda parte del cuestionario con aspectos sobre la seguridad y salud en los procedimientos de construcción (si usan guantes y gafas de protección, o si visten ropa adecuada). En un tercer apartado han abordado el asunto de la prevención y las actividades concretas a este respecto (si contratan el servicio o lo gestionan ellos, si se evalúan las actividades o no…). Y por último, han querido conocer cuál es la percepción de la responsabilidad en temas de seguridad y prevención y si hay una buena coordinación en estos aspectos.

Tras este exhaustivo cuestionario, y a través de un análisis matemático multivariante de correspondencias múltiples, es decir, un análisis que les permite correlacionar diferentes variables, han podido concluir que «hay una relación directa entre el tamaño de la empresa y las actividades de prevención. A mayor número de trabajadores y mayor facturación, mejor actividad preventiva y de seguridad». Esta es una realidad que se cumple en todas las variables. Y la más señalada es la de la formación e información. «Se aprecian carencias en estos aspectos porque la tónica es que los empresarios, gerentes y trabajadores, sobre todo de compañí­as pequeñas, no conozcan a fondo la legislación en esta materia», afirma.

En general, cuenta que, las empresas cumplen los mí­nimos en materia de prevención en comparación con el resto del sector de la construcción, pero necesitan mejorar muchos aspectos. Por ejemplo, «las empresas sí­ realizan los reconocimientos médicos pertinentes pero no suelen iniciar una obra con un plan de seguridad».

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¿Qué aporta la educación musical a los estudiantes?

El papel de las enseñanzas musicales en Primaria y ESO se ha visto relegado a un puesto secundario respecto a otras asignaturas. Sin embargo, algunos estudios recalcan que estimula de forma positiva la inteligencia y mejora los resultados en otras áreas de conocimiento.

¿Quién decide qué materia curricular es más importante que otra? Las administraciones educativas de nuestro país en sus nuevas ordenaciones curriculares han relegado el papel de las enseñanzas musicales en Primaria y ESO a un puesto secundario respecto a otras asignaturas. Sin embargo, las investigaciones y estudios sobre el papel de la educación musical en la formación integral de los estudiantes recalcan, entre otros aspectos, que estimula de forma positiva la inteligencia y mejora los resultados en otras áreas de conocimiento.

Hay discrepancia entre las lecciones de música del currículum actual y las que se impartenA pesar de que numerosas investigaciones delatan los evidentes beneficios que ejerce la educación musical sobre la formación integral del alumno, el sistema educativo relega esta materia a los mínimos de docencia establecidos. El reconocimiento y valoración del papel que estas enseñanzas desempeñan en la educación global es una de las principales reivindicaciones de los profesionales de la asignatura. Tras la implantación de la Ley Orgánica de Educación (LOE 2006), habían visto como, tanto en Primaria como en Secundaria, la carga lectiva de música se había reducido de forma drástica.

El proyecto de investigación meNet (Music Education Network), que ha contado con la colaboración de 90 instituciones educativas de 23 países europeos, ha analizado durante el periodo 2006-2009, entre otros aspectos, las similitudes y diferencias en educación musical de los distintos sistemas educativos. Las conclusiones sobre nuestro país remiten a una relevante discrepancia entre las lecciones de música estipuladas en el currículum actual y las que realmente se imparten. «Las recomendaciones dadas por los profesores de música e instituciones de educación musical de España y otros países han sido ignoradas de forma sistemática por las autoridades», recalca el informe.
Música y habilidades

La educación musical reforzada estimula de forma positiva la inteligenciaJosé Antonio Rodríguez-Quiles, catedrático de Educación Musical de la Universidad de Granada, y coordinador de meNet en nuestro país, resalta sin embargo en su articulo ‘¿Es necesaria una Educación Musical para todos?’ (Revista de la Lista Europea de Música en la Educación), las innumerables ventajas que reporta a los niños la práctica continuada de la música en la escuela. Entre otros beneficios, este especialista señala que permite que experimenten por sí mismos su propia capacidad de expresión, favorece el aumento de las competencias sociales gracias a la práctica en grupo y facilita el significado de la forma y el orden.

Rodriguez-Quiles no olvida mencionar en su artículo los resultados de una de las investigaciones más relevantes a nivel internacional sobre la incidencia de la educación musical en los niños de Primaria, realizada en Berlín hace una década. Según este estudio experimental, la educación musical reforzada estimula de forma positiva la inteligencia, tanto de los alumnos mejor dotados intelectualmente, como de los que presentan algún déficit de desarrollo. Por otra parte, el rendimiento en otras asignaturas de los estudiantes «reforzados» en música, a pesar del coste temporal, no se vio afectado en ningún momento.
La actitud del alumno

A la mayoría de los alumnos les gusta la asignatura de música por encima de la mediaEntre los argumentos en contra de la reducción de la materia de música en enseñanza Secundaria, los docentes de esta asignatura apuestan por la actitud positiva de los estudiantes hacia su aprendizaje. Javier Lara, presidente de la Confederación de Asociaciones de Educación Musical (COAEM), señala que ésta es una de las claves del asunto, «tenemos la suerte de entrar por la ‘puerta de atrás’ de la mente de nuestros alumnos», afirma.

El profesor Miguel Ángel Úbeda Cárdenas argumenta en un manifiesto de COAEM que a la «mayoría de los alumnos les gusta la asignatura de música por encima de la media de las demás materias», algo que contribuye al bienestar del alumnado dentro del sistema. Úbeda Cárdenas señala también el atractivo que tiene la asignatura para muchos alumnos con dificultades educativas y con escasos intereses culturales. Esta afinidad, que se manifiesta en muchos casos en resultados más competentes que en otras materias, «funciona como un factor de atracción para estos estudiantes hacia el sistema educativo», en definitiva, un arma contra el fracaso escolar.

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Un libro aborda la protección del patrimonio histórico

En el libro, publicado por la UGR, han participado 25 especialistas en esta materia

La Editorial Universidad de Granada (eug), en colaboración con Caja Madrid, el Ministerio de Ciencia e Innovación y la Junta de Andalucía, ha publicado el libro ‘La protección del patrimonio histórico en la España democra´tica’, coordinado por el catedrático del Departamento de Historia del Arte y Música de la Universidad de Granada (UGR).

Esta obra recoge los resultados más significativos del proyecto de investigación de excelencia ‘Estudio comparado de las políticas de protección del Patrimonio Histórico en España. Creación del Observatorio sobre el Patrimonio Histórico Español (OPHE)’, dirigido por Ignacio Henares Cuéllar, y cuyo objetivo era llevar a cabo un análisis comparado de las diferentes políticas de protección puestas en marcha en España durante la etapa democrática por parte de las diferentes administraciones nacionales y autonómicas, y por las instituciones privadas más relevantes, con competencias en materia de Patrimonio Histórico, haciendo hincapié en la defensa de la diversidad cultural española y de cómo ésta ha de conciliarse con la dimensión universal y carácter unitario que igualmente caracterizan nuestro legado histórico.

El volumen, con una amplia introducción del profesor Ignacio Henares Cuéllar, cuenta con varios capítulos en los que se trata de: «Conceptos y tipos de bienes», «Gestión e intervención», «Patrimonio histórico y sociedad», «Diversidad cultural e identidad» y un amplio anexo bibliográfico.
En el libro participan 25 especialistas en Patrimonio Histórico, informa la UGR en un comunicado.

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Los aspectos no verbales influyen en la ‘interpretación simultánea’

La dicción y la fluidez influyen mucho más de lo que se pensaba a la hora de valorar una interpretación. Esta es una de las principales conclusiones de un proyecto de investigación desarrollado en España

En el mundo de la interpretación simultánea los parámetros no verbales pesan incluso en la comprensión. Son importantes tanto los elementos no verbales del intérprete hacia el usuario que recibe la comunicación como los del interpretado hacia el intérprete. Así lo demostró el proyecto «Interpretación simultánea: maximizadores y minimizadores de la calidad», desarrollado por investigadores de la Universidad de Granada (UGR), España.

La voz, el estilo, la dicción, la fluidez, el acento, la terminología, la entonación, la cohesión, la transmisión correcta, o la transmisión completa son los 10 parámetros con los que estos expertos han analizado la calidad en interpretación simultánea. De entre todos estos parámetros, concluyeron que algunos como «la dicción y la fluidez influyen mucho más de lo que se pensaba a la hora de valorar una interpretación».

Para ello, los investigadores llevaron a cabo diferentes líneas de trabajo. Por un lado, desarrollaron estudios de carácter experimental preparados en el Centro de Instrumentación Científica de Granada. La profesora Collados explica: «Partimos de un discurso en lengua extranjera y le pedimos, siempre al mismo intérprete, que realizara la interpretación siguiendo diferentes directrices (cambios de entonación o de velocidad, por ejemplo) y luego la presentamos para su valoración a usuarios de distintas universidades españolas».

Según afirma, «los resultados demuestran que efectivamente el usuario, casi siempre de forma no consciente, castiga mucho una interpretación en la que los elementos no verbales no son los adecuados, y no pueden entrar a valorar lo suficiente la interpretación que no es tan buena desde el punto de vista del contenido». «Cuando se le pregunta a un usuario si estos aspectos no verbales son importantes, suele responder que no». Sin embargo, el resultado de esta investigación demuestra lo contrario. Es la primera vez que se llega a una conclusión como esta en la investigación sobre calidad de la interpretación.

¿Cuál es la utilidad de este trabajo? «Entre otras cosas, el hecho de que todos estos aspectos se puedan trabajar y mejorar, incluso la agradabilidad de la voz, y que el intérprete los puede optimizar», afirma Collados.

Pero ¿qué sucede con el «interpretado»? ¿Influyen los elementos no verbales del «ponente» en la interpretación? ¿Cuál es su peso en el paso del discurso original al intérprete? Para contestar a esta pregunta, el grupo de expertos de la UGR grabó en vídeo a ponentes y discursos originales en alemán, francés e inglés, de una sesión de tres días del Parlamento Europeo. Grabaron asimismo las interpretaciones que se llevaron a cabo en las cabinas española, francesa, y alemana («lo que supone un material único de estudio».

«Hemos transcrito todos los discursos e interpretaciones mediante un sistema de transcripción exhaustiva basada en los métodos existentes, completados con estos aspectos no verbales”. Después, utilizando una “aplicación informática diseñada para ello, se puede ver y escuchar el discurso original y cotejarlo con las interpretaciones y los datos de los análisis».

En este caso, «aspectos como la velocidad del ponente, si el discurso es leído o no, o si tiene acento no nativo ocupan lugares destacados». De hecho, «por ejemplo, un ponente monótono, puede desvirtuar una interpretación porque el profesional pierda la atención o el hilo, y dificultar así el entendimiento final entre el ponente y el usuario de la interpretación». «Creemos que habría que educar a los organizadores de congresos, a los ponentes y a los políticos en estos aspectos para facilitar el entendimiento, que es el objetivo final de la interpretación. Que entiendan que la interpretación no es algo automático», afirma la profesora Collados. «En definitiva, lo que queremos con nuestro trabajo es mejorar la calidad de las interpretaciones».

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La Ley de Muerte Digna acerca los cuidados paliativos a los enfermos

Fernando Álvarez lleva dos décadas asistiendo a enfermos al final de su vida y asegura que ha aprendido muchas lecciones de entereza. «En los últimos días el paciente ya te dice que se va ir, lo percibe, y está tranquilo. Sólo te pide que le quites el dolor, el sufrimiento». Médico de familia formado en cuidados paliativos, atiende con su equipo del Hospital Civil a unas 25 familias. En la mayoría de los casos, el enfermo sufre cáncer.

La Ley de Muerte Digna en Andalucía, que ha cumplido un año, no ha aportado nada nuevo a los cuidados paliativos, en todo caso ha clarificado situaciones. Su aplicación ha servido para acercar este campo a la sociedad, borrar tabúes y asociaciones erróneas –por ejemplo, con la eutanasia– y sobre todo, ha potenciado la figura del médico especializado en aplicar terapias que alivien el dolor del enfermo, y sufrimiento. Este profesional tiene cada vez más presencia en los centros de salud. En Málaga los ambulatorios están creando un coordinador de cuidados paliativos, que gestiona la asistencia y que está muy ligado también al hospital.

En la provincia se estima que más de 10.000 pacientes precisan de estos cuidados, según los datos de la administración autonómica. Los hospitales absorben la demanda de los enfermos en una fase aguda, o casos más complejos. Los recursos en este nivel asistencial han mejorado, sobre todo desde la ejecución del plan autonómico en 2008, pero sigue habiendo problemas en las zonas rurales, en pueblos pequeños.

En la capital, el Hospital Carlos Haya tiene dos equipos de atención a domicilio, más una unidad de ingresos con 12 camas; y el Clínico ya ha incorporado un grupo asistencial. También hay unidades en los hospitales Costa del Sol, en Antequera, Axarquía y Ronda, y se suman los recursos que proporciona la organización Cudeca, que integra cuatro equipos domiciliarios y dispone de nueve camas en Benalmádena. «Claro que no tenemos los recursos para atender al 100%, pero se ha mejorado bastante en los últimos años. Lo más importante es que somos un equipo multidisciplinar, que trabajamos de forma conjunta con los médicos de primaria», explica Marisa Martín, directora médico de Cudeca. Este centro atendió a 716 pacientes en 2010.

Los profesionales en paliativos tienen claro que prestan asistencia tanto al enfermo, como a sus familias. «Entre ellos se crea una especie de pacto de silencio. El enfermo sabe lo que le pasa pero no lo dice, y el familiar se lo oculta», expone el doctor Álvarez, que dedica una hora, como mínimo a la atención a domicilio. Su trabajo no sólo consiste en aplicar las técnicas que mitiguen el dolor del enfermo; también acompaña a los familiares ante el duelo.
Los médicos se sienten más respaldados con la norma, porque reconoce el derecho de los enfermos a morir dignamente. Y se respalda jurídicamente al especialista para que aplique técnicas como la sedación, con el fin de aliviar los síntomas de la patología y no prolongar un tratamiento –lo que se conoce como ensañamiento terapéutico– cuando el mal es irreversible y el paciente está en el final de su vida.

El envejecimiento de la población hace previsible que suba la población susceptible de precisar cuidados paliativos. Pero el doctor Alonso observa un repunte de enfermos más jóvenes, a partir de 50 años, que no han superado un cáncer. Estos casos son más complejos para el especialista. « No le puedes curar, pero sí ayudarle para que no sufra y para que tenga calidad de vida hasta el final». Los pacientes terminales suelen pedir a los médicos pasar sus últimas horas en casa.

Los extranjeros de Málaga, más concienciados con el testamento vital
Sólo uno de cada 10 andaluces sabe lo que es el testamento vital. Así lo refleja un estudio de la Universidad de Granada, que ha elaborado por primera vez en Europa un programa que permite mejorar los conocimientos de la población hacia las voluntades anticipadas, así como incrementar su uso.

De los pacientes terminales, muy pocos han firmado su testamento vital. Los médicos destacan que en la provincia los extranjeros sí usan el registro de voluntades anticipadas, porque están más informados y consideran importante dejar constancia de sus deseos en la etapa final de la vida.

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El Pueblo de Ceuta

Pág. 19: El IES organiza una asignatura para el Aula de Mayores

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